REGIONE/PROVINCIA: Emilia Romagna/Parma
PROFESSIONE: Educatrice
Ho 41 anni, lavoro a scuola da 19 anni per una cooperativa che in realtà è diventata una multinazionale gerarchica, ho una bimba di 5 anni. Noi siamo a casa dall’ultima settimana di febbraio; all’inizio non pensavamo che si prolungasse così tanto questa emergenza, per cui stare a casa e avere tanto tempo per stare insieme agli amici e ai famigliari era una cosa piacevole.
Ci hanno promesso ammortizzatori sociali che ci coprissero almeno l’80%, ma la prima settimana di assenza, facendo bene i conti, in realtà è stata retribuita al massimo al 60/70%.
La mia cooperativa non ha quasi mai usato forme di comunicazione ufficiali per farci sapere come avrebbero affrontato questa situazione. Messaggi whatsapp, mezze promesse, inviti alla calma. Ci siamo organizzati da tempo tra colleghe e colleghi e la nostra richiesta è e rimarrà il 100% del salario perché non siamo disposti a pagare noi le conseguenze del coronavirus.
Ad oggi non so ancora come e quanto mi pagheranno per il mese di marzo. Lavorando al nido, non faccio un lavoro di didattica, per questo non è possibile per me lavorare da casa, anche se abbiamo deciso di trovare forme alternative di comunicazione per parlare con i bambini, tramite piccoli video, per mantenere viva una relazione.
Amo il mio lavoro perché è lavoro di ricerca e scoperta, insieme ai bambini, da svolgere con gli occhi, le mani, il corpo. È un lavoro di accoglienza di tutti, mamme, papà, nonni, fratelli, un lavoro di incontro, che crea relazioni. È un lavoro da sempre sottovalutato, considerato a volte solo una sorta di parcheggio, ma invece per me è un lavoro di costruzione di comunità e di mutuo sostegno. È un lavoro sottopagato, perché la privatizzazione del sistema educativo ha fatto sì che si risparmiasse sulla paga di noi lavoratrici e sugli strumenti messi a nostra disposizione.
Ora, nell’emergenza, vedo scoppiare in maniera molto chiara tutto quello che è già normalità: sfruttamento, concertazione, frammentazione, differenze di classe.
Mi scalda il cuore però incontrare virtualmente le mie colleghe e cercare anche in questa situazione forme di lotta unificanti o creative e sedimentare quella rabbia che spero serva tanto per il futuro.